"Ci sono 3 cose che ogni persona dovrebbe fare nella propria vita: piantare un albero, avere un figlio e scrivere un libro." (Jose Marti, poeta e scrittore)
Il meraviglioso Paese di Oz
le nuove avventure dello
Spaventapasseri
e del Boscaiolo di Latta
e anche le strane vicende
dello Scarabeo Molto Ingrandito,
di Jack Testa di Zucca,
del Cavalletto animato
e del Gump;
la storia è
il seguito de “Il Mago di Oz”
di L. Frank Baum
illustrato da
John R. Neill


tradotto da
Monica Guido

Libro Bianco & Nero
Formato 14,8 x 21 (A5)
Copertina Morbida
Pagine 246
Editore Boopen
ISBN 978-88-6223-177-0

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venerdì 25 aprile 2008

Ozma di Oz - Nota introduttiva di Paola Fallaci

Su “Ozma di Oz” ci sono da fare molte considerazioni e la prima di tutte è che si tratta di un libro divertente da leggere e bello da guardare. Nei libri innanzitutto “si guardano le figure”, dicono i bambini. “Le figure” sono di John R. Neill, un illustratore formidabile che però su “Ozma di Oz” ha fatto qualcosa in più dei disegni: è delizioso il suo senso delle pagine, la fantasia dell’impaginazione, le aperture strane, i personaggi in piedi sulle scritte, l’uso dei bianchi, delle righe, degli stacchi, dei tagli, delle cornici e dei drappeggi alla Alex Raymond. Si vede che Neill ha lavorato parecchio su queste tavole, che le ha studiate una per una, che ci si è appassionato: del resto il regno incantato di Oz gli piaceva così tanto che, dopo la morte di Baum, si provò a scrivere dei seguiti, purtroppo bruttini bruttini dicono, perché aveva il talento del racconto illustrato ma non di quello scritto. Fatto sta che con questo talento straordinario, Neill illustrò tutti i libri della serie Oz, che sono molti; quattordici, però non illustrò il primo, cioè “Il mago di Oz” che invece fu illustrato da William Wallace Denslow. Anche in “Ozma di Oz” è rimasto qualcosa di Denslow: lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Stagno e il Leone Codardo, che riappaiono in questa storia, sono come li aveva visti lui. È cambiata invece la protagonista: Dorothy. Chi possiede “Il mago di Oz” in questa edizione Bur dei ragazzi, può divertirsi a paragonare le due Dorothy: quella di Denslow è una bambina grassotta, campagnola, sui quattro-cinque anni; quella di Neill è una bambina sugli otto- nove e di città. Diversi i capelli, che non sono più lunghi e riuniti in treccione, ma abbastanza corti e appuntati con un grande nastro; diverso il vestitino: in”Ozma di Oz” il gusto dell’epoca (primo decennio del 1900) è forte, però Neill era modernissimo e Dorothy è all’ultima moda, cosa interessante da osservare oggi perché nei libri di adesso ci sono raramente bambini con vestiti attuali.

E passiamo al racconto. Nel 1899, L. Frank Baum aveva inventato un regno dove capitavano cose da matti, il regno di Oz. Nel 1907 ne inventò un altro: Evland, confinante con Oz, una delle tante ever ever land, la terra di sempre dove accadono fatti fantastici senza che nessuno si meravigli perché ci capita come nei sogni, senza spiegazioni. A Evland, dove si svolge la storia di “Ozma di Oz”, governa momentaneamente la principessa Langwidere, tipa strana, di cui nessuno conosce il vero aspetto perché possiede trenta teste e le cambia continuamente. Governare le piace poco perché “deve perdere almeno dieci minuti al giorno nelle cure dello Stato”, mentre la sua aspirazione consiste nel passare tutto il tempo davanti allo specchio. Purtroppo il trono tocca a lei perché il crudele re Evoldo si è ammazzato dopo aver venduto la moglie e i dieci figli al perfido re degli Gnomi e il re degli Gnomi ha trasformato tutti quanti in soprammobili color porpora reale. Insomma una vergogna. Si sente che nel paese manca un cervello buono e saggio ma ci sono quelle trenta teste scioccherelle: Rotatori scorazzano sui piedi a rotelle, Gnomi vogliono trasformare la gente in scorpioni, un Gigante prende a martellate i viandanti. Peccato, perché Evland sarebbe un posto assai bello, c’è perfino un albero che al posto dei fiori e dei frutti ha scatole-merenda e secchielli-pranzo con dentro limonata, tacchino arrosto, lingua fredda, pane imburrato, nove fragole e noci già sgusciate, più i tovagliolini di carta per pulirsi la bocca, naturalmente. Ma a rimettere a posto le cose, chi ti arriva dal Kansas? La nostra amica Dorothy. A dire il vero, Dorothy non avrebbe alcuna intenzione di occuparsi degli affari altrui, è il caso che la costringe. Stavolta, difatti, una grossa ondata la sbalza dal ponte di una nave diretta in Australia e la getta in acqua. Dorothy si aggrappa a una stia di polli e sbarca come un marine sulla spiaggia incantata di Evland. Non è sola: dalla stia esce una gallinella gialla, una certa Billina la quale ha tutt’altro che un cervello da gallina, a parte il fatto che parla molto correttamente per essere una principiante. A Dorothy e a Billina si accoda Tictoc, un automa che par fatto dal fabbro sotto casa, invece è un’opera della ditta Fabbri & Stagnini: basta caricano per il pensiero (sotto il braccio sinistro), per la parola (sotto il braccio destro), per il moto e per l’azione (sulle spalle) ed è garantito mille anni.

Paese incantato che vai, amici incantevoli che trovi: Dorothy non soltanto ritrova il Boscaiolo di Stagno, lo Spaventapasseri e il Leone Codardo, ma conosce la Tigre Affamata. Questa Tigre Affamata ha molta fame, come ci si può benissimo immaginare. “Perché non mangi qualcosa?”. “Perché non serve: mi torna subito fame”. “Anche a me, ma continuo a mangiare”. “Tu mangi cose innocue, ma io sono una belva feroce e ho la predilezione per i bambinelli in fasce, sai quei bei marmocchi grassi, teneri, cicciosi?”. “Che orrore!”. “Vero? Però non ne ho mai mangiato nessuno perché mi rimorde la coscienza”. “Mi pare che tu sia una gran brava tigre”. “Eh no, rifiutandomi di mangiar bambini mi comporto da pessima tigre”. Questo è un colloquio che si svolge fra Dorothy e la Tigre Affamata, perché come il Leone Codardo era coraggioso, come lo Spaventapasseri con la paglia in testa era geniale, come il Boscaiolo di Stagno senza un cuore era un tesoro, così la Tigre Affamata è una bestia molto ammodo. Purtroppo deve essere imbarazzante averla come ospite; dopo aver mangiato diciassette scodelle di zuppa, un piattone di salsicce fritte, undici farine di pane e ventun panettoni è capacissima di dirvi che ha ancora un certo languorino e che gradirebbe venti chili di filetto appena scottato, dieci chili di patatine arrosto e cinque litri di panna montata.

Con amici tanto straordinari, Dorothy attraversa Evland che, come tutti i posti fuori dal mondo, è un paese pieno di sorprese.

Grazie a Billina, salva la regina e i principini, conquista un cinturone magico con cui potrebbe togliersi tutti i capricci, ma lei ha un solo desiderio: tornare dallo zio Enrico. Valli a capire i bambini. Sappiamo dal “Mago di Oz” che lo zio Enrico “lavora accanitamente dalla mattina alla sera, non sa cosa sia la gioia, è tutto grigio, ha un aspetto severo e non parla mai”, ma Dorothy pur di tornare da lui decide di usare la cintura magica strappata al re degli Gnomi. “Sarebbe un peccato sprecare la cintura come hai sprecato le scarpette” le dice Glinda che oltre a essere una strega buona è anche una strega un po’ seccata perché Dorothy fece scomparire le scarpette d’argento della Perfida Strega dell’Ovest soltanto per tornare nel Kansas.

Ma stavolta c’è Ozma a risolvere il problema del viaggio, così Dorothy può andare in Australia a “curare” lo zio come aveva promesso alla zia Emma.

Tutto qui? Tutto qui. Neppure in questa storia Dorothy perde un grammo del suo fascino, un fascino che, per esempio, è tutto l’opposto di quello di Pinocchio. Pinocchio non sa resistere all’idea di andare, di scoprire: al suo babbo pensa, però gli preferisce il Paese dei Balocchi. Dorothy si ritrova al Paese dei Balocchi ma non fa che sognare le braccia del suo barbosissimo zio (uno zio perché Dorothy, come tutti i ragazzini delle fiabe, non ha una mamma). Ma che ci si può fare, è una bambina buonina buonina e non una disubbidiente come Pinocchio o come Tom Sawyer. Figurarsi che le dispiace perfino ammazzare le streghe. “Guarda un po’ cos’hai combinato Non lo sapevi che l’acqua mi avrebbe fatto morire” le grida, nel “Mago di Oz”, la perfida Strega dell’Ovest mentre si scioglie come una caramella “Oh, mi dispiace tanto” si rammarica Dorothy che le ha tirato un secchio d’acqua addosso. “Non sapevi che le uova sono veleno per gli Gnomi?” le dice il re in “Ozma di Oz” e Dorothy non ribatte affatto “Buon pro’ ti faccia” come per esempio avrebbe ribattuto Pinocchio.

Quelli che si sono occupati di L. Frank Baum hanno detto che non fu uno scrittore “didattico”, che non risentì della moda ottocentesca di fare il moralistico pistolotto finale. Io invece trovo che, lieve lieve, c’è qualcosa di moralistico o meglio c’è un amaro humour collodiano. Per esempio, Ozma dice ai suoi soldati: “Avanti miei prodi!” E il generale: “Vogliate scusarmi, altezza, ma si dà il caso che io, come tutti i miei ufficiali, soffra il mal di cuore e basterebbe la più piccola emozione a ucciderci. Se combattiamo ci emozioniamo di sicuro: non sarebbe meglio evitare questo grave pericolo?”. Non è collodiano tutto questo? E non è collodiana la principessa Langwidere che dice: “Non si può pretendere che una principessa ricordi oggi quello che ha fatto ieri”. E non lo è Dorothy, quando dall’alto di una torre, grida allo Spaventapasseri “Salvami!”. E lui risponde: “Mi sembri perfettamente salva in questo momento”? Sono degne di Collodi anche certe considerazioni come “Ci sono tanti giovani che non hanno voglia di fare niente e l’Università è proprio quello che ci vuole per loro”.

Ci si potrebbe chiedere, casomai, se in Baum c’è un umorismo americano perché Baum mette molta cura a descrivere un certo orgoglio nazionale, per esempio Dorothy è fierissima del Kansas. Quando Langwidere la conosce, dice delusa: “Credevo fossero venute a trovarmi persone importanti”. Dorothy replica “Difatti: io sono una persona importante”. “Sei di sangue reale?”. “Meglio, sono del Kansas!’. E quando arriva a Evland dice: “È un posto nuovo e selvaggio, senza tram né telefoni, gli abitanti qui non sono ancora stati scoperti”, perché Dorothy rimane un po’ freddina davanti a tutto ciò che non è americano, fosse anche una cintura fatata e un albero-delle-merende.

Dunque, questo è il libro “Ozma di Oz”: pieno di invenzioni, di nomi buffi e intraducibili, di nonsense. Un mondo allegro e pulito dove il perfido Re degli Gnomi assomiglia, a Babbo Natale, dove oltre alle streghe cattive ci sono le streghe buone, dove tutti stanno bene e, a parte Evoldo, nessuno vuole morire perché è una gran seccatura essere morti. Dove le galline risolvono i grossi problemi e le tigri affamate non sbranano i bambini e gli automi paiono pentole di rame. Certo, si sente che Baum l’ha scritto presto presto, per far quattrini, si sente che butta giù elementi precedentemente sfruttati: come tutti i seguiti, è riuscito meno bene del capolavoro. Però si sente anche che Baum aveva il talento di narrare ai ragazzi e gli scrittori per i ragazzi hanno un fascino particolare, diverso da quello che, poniamo, può avere un grande scrittore che si mette lì e inventa una storia, una storia bella, ben scritta, ma senza quel non so che. Baum, per i ragazzi, scrisse sessanta libri, più due per gli adulti (‘‘The maid of Arran” nel 1 881 e “The Queen of Killarney” nel 1885) e sessantadue libri sono moltissimi, anche se scrisse la maggior parte con il penname, con lo pseudonimo, anche se lo pseudonimo dovette aver bisogno di altri pseudonimi perché inflazionò ben presto anche quello. Difatti usò Floyd Akers sei volte, Edith Van Dyne ventiquattro volte e Shuyler Stauton due volte.

Per capire bene il suo lavoro nella serie di Oz, bisogna. sapere qualcosa della sua vita perché le grandi opere non sono mai cose semplici, ma sempre complesse e si prestano ad essere lette a più livelli,. compreso quello personale dell’autore. Baum ha messo moltissimo di sé in quello che ha scritto e chi lo conosce non si meraviglia di trovare in “Ozma di Oz’’ la gallina Billina, i soprammobili, i militari sciocchi, la generalessa Jinjur, Dorothy e neppure quella “ma” attaccata ad Oz. Vediamola, allora, questa vita.

Lyman Frank Baum nacque a Chittenango, nello stato di New York, il 15 maggio 1856. Suo padre si chiamava Benjamin Ward, sua madre Cynthia Stanton; famiglia ricca per via del petrolio. Lyman Frank era un po’ malatino di cuore: ebbe un’infanzia tranquilla, con professori privati, più spesso con un libro in mano che fuori a giocare coi fratelli. Il nome Lyman non gli piaceva: in casa fu sempre chiamato Frank. Poiché era un sognatore, fu spedito al Syracuse accademy, un collegio militare dove davano la bacchetta sulle dita: a Frank venne un attacco di cuore e fu rapidamente rimandato indietro, ma quell’annusatina alla vita militare gli bastò per descrivere sempre i generali come in “Ozma di Oz”. Cominciò molto presto a scrivere poesie e romanzi. A quindici anni, con il fratello Henry, fece un giornalino “The Rose Lawn Home Journal”; a diciotto, con l’amico Thomas Alford, fondò “The Empire”. Uno che scrive poesie e dirige giornali può occuparsi di polli? Può se è americano. Frank Baum, infatti, non soltanto creò nuovi incroci di pennuti e vinse premi con libriccini sull’allevamento, ma nel 1886 scrisse perfino un trattato tecnico sui polli che si intitolava “The Book of Hamburgs’’ e sulla copertina aveva un gallo e due galline. Questa passione per i polli tanto gli rimase che in “Ozma” inserì Billina, una protagonista importante. “Come puoi indovinare te, stupido pennuto, quando hanno sbagliato gli altri?” le chiede il re degli Gnomi. Ma Billina scioglie gli enigmi, fa scattare il campanello sul trono, libera tutti: e li libera perché Baum, i polli, li stimava.

Papà Baum, oltre ad avere affari nel petrolio, possedeva alcuni teatri, anzi sua sorella Caterina, col nome di Katherine Grayson, era un’attrice abbastanza famosa. Anche Frank Baum divenne attore e ribattezzatosi George Brooks, girò tutto lo stato di New York insieme ad alcune compagnie shakespeariane. Poi, come Louis F. Baum apparve in parecchi spettacoli all’Union Street Theater di New York. Intanto seguitava a scrivere. Nel 1882 trasse da “La principessa di Thule” di William Black il melodramma “The Maid of Arran” quindi formò una compagnia e la rappresentò avendo un buon successo. Ma chi conobbe durante un breve ritorno a casa? Maud Gage di Fayetteville, figlia della suffragetta Matilda Joselyn Gage che, con Elizabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony, aveva scritto “Storia del suffragio alle donne” in quattro volumi. Fu amore a prima vista. L’11 novembre del 1882, Frank e Maud si sposarono e si deve dire subito che fu un’unione felice: Ozma è proprio un omaggio alla moglie, difatti al nome Oz appiccicò le iniziali del nome Maud perché era lei la fata della sua vita. Ma com’è possibile che un sognatore, uno spensierato, un bugiardello convinto della reincarnazione possa aver amato e sia stato riamato da una donna pratica, coi piedi piantati per terra e la mascella quadrata? Chi lo sa. Ma così fu, a lui piacevano le donne con. forte personalità, tant’è vero che andò sempre d’accordissimo anche con sua suocera. Anzi nel 1890, quando diventò direttore del “Dakota Pioneer”, pubblicò il “Manifesto” del Movimento Femminista e gli scritti di Susan B. Anthony, inoltre incitò i lettori a concedere il suffragio alle donne, e gli dispiacque che il Dakota si facesse scavalcare dal Wyoming il quale concesse il voto alle donne nel 1889, primo degli Stati americani. Sta di fatto che tanto bazzicò con le donne di polso che proprio in “Ozma di Oz” traccia il ritrattino della generalessa Jinjur che, a capo di un esercito di donne, porta via il trono di Oz allo Spaventapasseri, poi, quando viene a sua volta deposta, sposa il proprietario di nove vacche però conserva lo stesso la sua personalità. “Ma guarda chi si vede”, le dice Ozma “Come va?” “Va bene”, risponde Jinjur, “sono felice e mi occupo di affari”. “E tuo marito dov’è?” “È in casa a curarsi un occhio nero. Voleva mungere la vacca rossa, mentre io gli dicevo di mungere la vacca bianca: sono sicura che capirà al volo la prossima volta”.

Insomma, donne così, donne della conquista del West. Anche la moglie di Baum aveva un bel carattere deciso: se i figli disubbidivano li picchiava con la spazzola per capelli. Una volta il piccolo Robert buttò il gatto dalla finestra: il gatto non si fece niente, certo non fu un bel gesto. Maud acchiappò il suo secondogenito e tenendolo sollevato fuori dalla finestra come se lo volesse buttare di sotto gli gridava: “Che ne diresti se ti lasciassi andare?”

Con due figli (c’era anche Frank Joselyn), Baum dovette lasciare il teatro. Tentò qualcuno dei cento mestieri che via via gli vennero in mente e che finirono male: produsse olio lubrificante per macchinari, aprì un Bazaar ad Aberdeen, fece il fotografo e l’allenatore di una squadra di baseball. Chiuse il Bazar nel 1890 dopo il ciclone del 23 maggio che gli ispirò l’inizio del “Mago di Oz”. E dopo la nascita del terzo figlio, Harry Neal, tornò al giornalismo e scrisse articoli poco tolleranti sui pellerossa. Nel 1890, i pellerossa insorsero per l’ultima volta guidati da Toro Seduto, il responsabile del massacro di Custer, ma quando il Settimo Cavalleria distrusse completamente il villaggio di Wounded Knee, Baum firmò pezzi assai elogiativi. “Nobody is perfect”, nessuno è perfetto, avrebbe detto Dorothy.

Dopo la nascita del quarto figlio, Kenneth, Baum cercò un nuovo lavoro e un nuovo posto dove stabilirsi con la famiglia. Si stabilì a Chicago con un contratto da giornalista per il “Post” e da venditore per il negozio di terraglie e porcellane “Siegel Cooper & Company”. Stava fuori casa tutto il giorno, ma alla sera rispettava la tradizione del Bed Time Story, gli piaceva leggere le storielle ai suoi bambini prima che si addormentassero e gli piaceva anche inventarne. La suocera veniva spesso a casa sua e conosceva le sue elaborazioni dai versi di Mamma Oca, così lo incoraggiò a pubblicarli. E qui bisogna aprire una parentesi: nell’Ottocento i libri per l’infanzia erano abbastanza barbosi in tutto il mondo e lo erano anche negli Stati Uniti, sebbene Beniamino Franklin avesse tentato di far capire che young people demand something more than didactic discussion, i giovani chiedono qualcosa di più di una discussione didattica. Perché a quei tempi andava ancora forte Samuel Griswold Goodrich, l’inventore di Peter Parley, il ragazzino americano tanto tanto dotto da avere una risposta per tutto, cioè un efferato rompiscatole come l’italiano Giannetto del Parravicini. Perciò è naturale che a un certo punto non se ne potesse più e tutti si augurassero qualcosa di divertente. Ed ecco “Il piccolo Lord Fauntleroy “della Burnett, “Tom Sawyer” e “Huckleberry Finn” di Mark Twain. Ecco anche perché i nonsense di Baum potevano avere un gradimento, a parte il fatto che erano carini: .I love water-I wash in it-I play in it-but in the flood-I get tired of it, mi piace l’acqua, mi ci lavo, ci gioco ma nelle inondazioni mi stufa. Così il primo libro di Baum per bambini fu “Mamma oca” in prosa. del 1897, e il secondo “Father Goose, Bis book”, cioè le rime di papà oca. Nel mezzo (senza alcuna coerenza) il periodico per decoratori “The show window”, ma Baum era fatto così.

Fu in quel periodo che conobbe Denslow, un grande disegnatore, che gli illustrò le rime di Papà oca e che contribuì largamente a far andare bene il libro. Meno male, perché la salute di Baum seguitava a peggiorare: nel 1891 dovette farsi togliere un tumore dietro la lingua, più tardi dovette farsi ricoverare in ospedale per una paralisi facciale. La malattia fu la fine dei mestieri in più, finalmente si occupò soltanto di scrivere. Come attività principale, voglio dire, perché per esempio trovò anche il tempo di inventare alcune varietà di crisantemi, i suoi fiori preferiti.

Come lavorava? Metteva giù le idee via via che gli venivano e adoperava vecchie lettere, fogliacci, conti. Fu così che nel 1900, pezzettino dopo pezzettino, foglietto dopo foglietto, nacque in tre mesi “Il mago di Oz”. Illustrato da Denslow, ebbe grandissimo successo. Baum aveva quarantaquattro anni e si mise a vivere, in tutti i sensi, di rendita. Come succede per molti miti, Oz rinacque ben tredici volte: Dorothy metteva un grembiulino pulito e arrivava in un nuovo paese fantastico, desiderando però subito di tornare nel Kansas, anche se nel Kansas non crescevano alberi magici. Come mai Baum, dopo “Il mago di Oz”, non lavorò più con Denslow? Un po’ perché Denslow aveva un gran brutto carattere, urlava e criticava sempre; un po’ perché forse erano gelosi l’uno dell’altro: che cosa aveva contribuito di più al successo del romanzo, il testo o i disegni? Fatto sta che Denslow fu rimpiazzato da Neill e Baum non ci perse niente.

Un’altra domanda: come mai il personaggio di una bambina? C’è chi parla di un’ispirazione venuta a guardare le bambine di Kate Greenaway sui piattini di porcellana: capelli sciolti, gonnellina che lasciava vedere le pantalettes coi bordi di pizzo e stretti alla caviglia, però Dorothy non era certo così leziosa, C’è chi parla della voglia di Baum di avere una figlia, invece ebbe soltanto quattro maschi. C’è chi si riallaccia ad Alice che sicuramente Baum conosceva. C’è infine chi si rifà a un certa moda letteraria americana dove le bambine avevano un loro spazio: Little Pussy Willow, di Herriet Beeche Stowe (l’autrice della “Capanna dello zio Tom”) e soprattutto le quattro sorelle March di “Piccole donne”. Anzi, Dorothy ha qualcosa della Jo inventata dalla Alcott, tutte e due sono dirette discendenti delle donne pioniere, hanno un grande entusiasmo e una gran capacità di voler bene. Qualunque sia stata la ragione, sta di fatto che Baum ebbe questa figlia di carta e in “Ozma di Oz” le dette un cognome oltre al nome: Dorothy Gaie. Le dette anche un sacco di qualità: semplicità, buon senso, gentilezza, generosità, dignità. “Ne abbiamo da vendere dignità noi del Kansas”, dice Dorothy.

Dorothy portò fortuna a Baum, tanto per cominciare gli permise di tornare a un vecchio amore: il teatro. Difatti nel 1903, a Broadway, uscì un musicai di Nathaniel D. Mann tratto dal “Mago di Oz”. Questo flirt del Mago di Oz col mondo dello spettacolo è proseguito per anni: sia Ridolini sia Oliver Hardy, quando ancora non era in coppia con Stan Laurel anzi Stanlio e Ollio erano nel mondo della luna, impersonarono il Boscaiolo di Stagno. E nel 1975, a Broadway, il musical “The Wiz” con attori negri e musiche rock ha avuto tre milioni di spettatori. Non solo: questo musical ha ispirato “Una parola urbana” di Sidney Lumet, con Diana Ross.

Baum tentò di portare al teatro anche “Ozma di Oz”, si rivolse a Oliver Morosco, uno showman di grande successo, ma Morosco preferì “The Tiktok Man of Oz” che comunque non andò troppo bene, A Baum non riuscì neppure di fare un film dal “Mago di Oz”: ci teneva tanto e per riuscirci si trasferì a Hollywood dove, nei 1909, fondò una società cinematografica con Harold Lloyd e il giovane Darryl Zanuck, ma la società fallì come altre sue iniziative. Il film fu girato da Victor Fleming, per la MGM, nel 1939 e c’era Judy Garland ragazzina che cantava la bellissima e superpremiata canzone “Over the rainbow”. Ma Baum era morto da un pezzo: dal 6 maggio del 1919. Poveretto, grande e grosso com’era, un bell’uomo con la riga in mezzo e i baffoni, fu sempre di salute fragile e l’ultimo anno della sua vita dovette trascorrerlo a letto per curarsi l’angina pectoris e un’infezione alla cistifellea. Tuttavia seguitò fino all’ultimo ad essere l’ottimista di sempre e a suo figlio Frank, che era alla guerra in Europa, scrisse: “Non essere abbattuto, ragazzo mio. Ho vissuto abbastanza per sapere che nella vita le avversità non durano mai moho a lungo”.

Dopo la sua scomparsa, i libri di Oz proseguirono ad essere così popolari che i ragazzi ne chiesero ancora e ancora, così Maud Baum concesse il diritto di scrivere alcuni seguiti a Ruth Plumly Thomson, una giovane scrittrice per ragazzi di Filadelfia, ed essa andò avanti fino al 1951. Maud, invece, non concesse lo stesso diritto a suo figlio Frank, contravvenendo una regola della fata Ozma che dice ‘‘Fai ciò che ti pare finché la cosa non disturba qualcun altro”.

Un’ultima cosa da dire: “Ozma di Oz’’ ha seguito il destino di tutti i libri di questa serie, cioè fu ritirato dalle librerie pubbliche nei tardi Anni Trenta. Venne detto che i libri di Oz erano “socialisti”, che il mago era “The Red Wizard of Oz”, il Rosso Mago di Oz, e che la cultura di Oz cercava di avvicinarsi al sogno marxista. Il senatore Joe McCarthy infierì ulteriormente negli Anni Cinquanta e, nel 1957, un anno dopo il Centenario della nascita dello scrittore, il responsabile delle Biblioteche pubbliche di Detroit dichiarò candidamente che non avrebbe mai rifornito gli scaffali coi libri di Frank L, Baum. Poi, le ragioni politiche furono lievemente mutate, si disse che i libri di Baum “non avevano alcun valore, incoraggiavano al negativismo, in essi non c’era nulla di buono neppure sul piano della fantasia”.

Sicché quale morale ci viene dalla vita di Baum? Visse in periodi storici importanti: l’apertura delle Frontiere e l’attraversamento delle Grandi Praterie con i carri, la lotta per il voto delle suffragette e quella dei pellerossa, ma egli visse ottimisticamente come se tutti i problemi si potessero risolvere con una cintura fatata, vide sempre tante stelline nel cielo e quando inventò il suo paese così incantato ma anche così familiare non lo mise affatto “in un’altra dimensione” come dice Ray Bradbury, ma lo mise direttamente fra gli Stati americani, cioè aggiunse una stellina sulla bandiera. Perciò è sorprendente che i suoi concittadini gli preferiscano Carroll e Alice, perché Baum è americano in tutto, anche nell’ideologia che fu sempre “Trade and plum-cake for ever, hurra!”, lavoro e torta per sempre, evviva!

PAOLA FALLACI

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